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Taranto, "Amarti m'affatica"

di Rossana Sangineto

17.09.2024 11:23

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Taranto è una città dove il cuore batte ancora, ma con un ritmo lento e doloroso. 
È una città dove il sole si riflette su due mari splendidi, ma dove l’aria porta con sé il peso invisibile di un destino difficile. 
Qui, vivere significa accettare un rischio: il rischio di ammalarsi più che altrove, di morire troppo presto, di vedere l'unico futuro possibile per i propri figli lontano da casa. 

È una città dove la bellezza naturale convive con un pericolo costante, dove ogni respiro è un atto di speranza.

Taranto avrebbe potuto essere una perla del Mediterraneo, con il suo mare cristallino e la sua storia millenaria. Ma è anche il luogo dove la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo è stata cancellata. 
Taranto non ha mai avuto l'occasione per valorizzare la sua unicità, per farsi conoscere al mondo per ciò che è davvero: una città che affonda le sue radici nella cultura, nell’arte, nella storia. 

E le contraddizioni non finiscono qui. 

C’è un aeroporto a Taranto, un simbolo di connessione e apertura, di sogni che spiccano il volo. Ma di voli non ce ne sono. È una struttura che resta lì, ferma, a ricordarci ogni giorno cosa potrebbe essere e non è. Le sue piste, disegnate per portare persone lontano, restano vuote, inutilizzate, come se il cielo stesso fosse stato negato alla città. 

Taranto è costruita su una necropoli. Le sue strade, i suoi palazzi, le sue fontane spente, le nostre stesse vite poggiano su una storia millenaria, su tombe antiche che raccontano di una civiltà passata, fiorente e straordinaria. 
Ma è come se tutto questo non contasse. Non abbiamo più la Soprintendenza dei Beni Culturali, e così la nostra storia resta sepolta, invisibile, come se fosse un peso da cui fuggire, anziché un tesoro da mostrare con orgoglio. 

In una città dove tutto sembra essere costruito su ciò che non c'è più, anche il presente appare fragile, precario, sempre sul punto di crollare.

Ci hanno insegnato a chiedere poco, a non aspettarci nulla. Ci hanno abituato a vivere con meno, accettando ogni privazione come se fosse la normalità. Ma Taranto, anche nel suo silenzio, non ha mai smesso di sperare. 

Per anni, l’unica cosa che riusciva a farci sentire vivi, a farci battere il cuore, era il calcio. I colori rossoblù erano più di una maglia: erano un simbolo, un’identità, un modo per sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo Iacovone, almeno per novanta minuti, le contraddizioni della città sembravano scomparire. 
Eravamo tutti lì, insieme, a tifare, anche, se non soprattutto, nella sconfitta.
Perché è facile sostenere i propri colori quando si vince, quando il successo fa brillare tutto con una luce più intensa. Ma il vero amore per una squadra si vede oltre le vittorie, oltre le categorie, oltre le sconfitte. 
A Taranto, i tifosi non hanno mai smesso di esserci, di far sentire la propria voce. Perché il sostegno dei tifosi rossoblù non è mai stato legato ai risultati, ma a un senso di appartenenza, a una passione che va oltre ogni delusione, ogni amara sconfitta. 

Ma, in questo avvio di campionato, anche questo sembra esserci stato tolto. Per qualche ragione, per qualche assurdo scherzo del destino, l’entusiasmo dei tifosi è stato spento per lasciare il posto al rancore.

Forse è la frattura ormai insanabile con la società del Presidente Giove, o forse è l'abbandono totale da parte delle istituzioni. O, forse, entrambe le cose. Se avessimo un sindaco che amasse davvero la squadra della sua città, magari, avrebbe garantito quel sostegno politico che manca da troppo tempo. Ma il silenzio delle istituzioni, l'assenza di una guida che si faccia carico dei bisogni di questa comunità sportiva, lascia pensare che non ci sia una via d'uscita. Sembra che ogni strada sia chiusa, ogni speranza tradita, come se Taranto dovesse rassegnarsi a vivere senza l'unica cosa che, storicamente, è riuscita a unirla davvero.
E poi ci sono i Giochi del Mediterraneo, un’opportunità che avrebbe dovuto rappresentare un nuovo inizio. Ci avevano detto che quei Giochi avrebbero cambiato tutto, che avrebbero ridato vita alla città, attratto investimenti, creato lavoro, portato Taranto sul palcoscenico internazionale. I Giochi del Mediterraneo avrebbero potuto essere il nostro riscatto, un’occasione per mostrare al mondo ciò che siamo capaci di fare. 

Ma, invece, anche questa speranza sembra svanire nel nulla. L’organizzazione è diventata l’ennesimo simbolo delle cose incompiute, delle promesse tradite e delle corse contro il tempo per raccattare le briciole avanzate dai masterplan e dai rendering dei tempi dell'annuncio. 

I Giochi avrebbero dovuto rappresentare un volano di rinascita ma, in questo momento, quello che vediamo è che ci hanno tolto anche quello che avevamo. 

Il Taranto F.C. 1927 è stato lasciato solo, senza uno stadio, con un presidente dimissionario ma tutt'altro che pronto a mollare, senza investimenti adeguati, con i tifosi che si sentono abbandonati, privati dell’unica cosa che riusciva a farli sentire vivi.

Quella passione che un tempo bruciava, che faceva vivere Taranto come una città europea in un clima da Champions League - citando il cronista di Sky durante Taranto - L.R. Vicenza - sembra ora spenta. 

E così Taranto resta una città sospesa, in bilico tra ciò che potrebbe essere e ciò che non è. 

Ma, nonostante tutto, Taranto non è solo una storia di fallimenti e rinunce. È una storia di resistenza, di cuori che continuano a battere, di persone che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di credere che un futuro migliore sia possibile. Perché, anche se ci hanno insegnato a chiedere poco, noi sappiamo che Taranto merita di più.

Perché Taranto è una città che non muore, una città che sa resistere, una città che, nonostante tutto, ha ancora un cuore che batte. Un cuore rossoblù.

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