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Quando il disastro del Taranto annienta le parole: il silenzio di chi dovrebbe raccontare
di Rossana Sangineto
Come si racconta un momento così? Come si mette nero su bianco una storia che non racconta solo una squadra di calcio ma un’intera comunità, fatta di tifo e passione, che si specchia in quei colori, in quello stemma e che, oggi, vede tutto sgretolarsi? Scrivere in queste condizioni non è più semplice cronaca, ma una lotta interiore. Ogni frase sembra troppo fredda o troppo accesa, troppo indulgente o troppo dura. E, alla fine, resta solo il silenzio.
Qualche giorno fa, Paola Raisi Iacovone mi aveva fatto custode di un messaggio di speranza: un invito a non mollare, a ritrovare l’unità anche nei momenti più bui. È un appello che condivido, perché so che quella speranza è tutto ciò che ci resta. Ma applicarla oggi è terribilmente difficile. Quando le sconfitte diventano un’abitudine, quando le scuse, le giustificazioni e le bugie si ripetono senza mai lasciare spazio a soluzioni vere, diventa arduo credere che ci sia un modo per uscire da questo incubo.
Questa vicenda ha ormai superato i confini del calcio. È un'icona di frustrazione e impotenza, di promesse tradite e di un’identità che si sta perdendo. Vedere il Taranto ridotto così fa male, e raccontarlo, cercando di non cadere nella rassegnazione, è uno sforzo immenso.
Non ho scritto ieri, ma non perché voglio arrendermi. Forse perché, per raccontare, a volte è necessario fermarsi e ascoltare il silenzio. Un silenzio che, forse, se condiviso, potrebbe diventare un momento di riflessione collettiva.
Perché il Taranto non può e non deve finire così.
Ma per rinascere serve più di un racconto: servono risposte, gesti concreti e un impegno reale da parte di chi ha il dovere di rimediare a questo disastro.
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