LE ORIGINI DEI RITI TARANTINI DELLA SETTIMANA SANTA
di Aldo Simonetti
La genesi è da ricondurre alla dominazione spagnola nel Mezzogiorno in pieno Seicento, benchè, diversamente da altre località, la penetrazione a Taranto abbia avuto luogo in una modalità alquanto singolare.
Un nobile tarantino, Don Diego Calò, particolarmente avvezzo a sollazzi e viaggi, decide, sul finire del XVII secolo, di intraprendere un ‘tour’ in lungo e in largo per la Spagna, centro politico a cui fanno capo tutti i diversi regni dell’enorme compagine territoriale ereditata da Carlo V.
Qui è letteralmente ammaliato dai rituali della Settimana Santa -ufficialmente istituiti da Filippo IV nella prima metà del secolo - al punto tale da manifestare da subito l’intenzione di importarli nella città natale. Questi, pertanto, commissiona ad un ignoto scultore napoletano la costruzione di due statue, di Gesù Morto e della Madonna Addolorata, acchè vengano recate in processione il giorno del Venerdì Santo, quantunque in tono minore che nella Penisola iberica. E’ il 1703 e a Taranto prendono ufficialmente avvio i Riti della Settimana Santa.
Ma quali analogie sono in tal senso riscontrabili tra la tradizione nostrana e quella ispanica?
Anzitutto, degno di osservazione è il vestiario del confratello, dove, fra tutte le varie componenti, spicca il cappuccio. Questo, d’uso in Spagna sotto diversa foggia (di tipo conico) e presso di noi (di tipo floscio), è il discendente del ‘capirote’, copricapo che i condannati dalla Santa Inquisizione indossavano poco prima della loro esecuzione (consuetudine iberica tipicamente medievale). Analogamente, nel corso delle nostre processioni, questo viene utilizzato in segno di penitenza. Ed ancora il suono degli inni funebri (con influssi arabi da Pamplona a Siviglia) e l’andamento pesante ed allentato accomunano ancor oggi le due processioni di differenti nazionalità, ma di comune origine.
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