I ragazzi e il bisogno di normalità... in cammino per un futuro migliore
a cura di Massimiliano Fina
La pandemia ha fatto emergere e acuire disuguaglianze già esistenti nella nostra società: spesso siamo solo noi ad avere l’idea che i problemi vadano risolti in casa, a qualunque costo. Con questa prospettiva però non diamo la possibilità di sperimentare vite diverse e, soprattutto, di interrompere le difficoltà quotidiane a tanti minori. Ecco perché occorre innalzare i livelli di protezione nei confronti di minorenni che vivono in condizioni di povertà economica e educativa.
Non è sempre facile, da parte degli operatori sociali, venire a conoscenza di casi in cui c’è la necessità di fornire un aiuto (violenze, molestie da parte di adulti, abbandoni, bullismo, difficoltà relazionali). Proprio per questo è necessario diffondere fra i ragazzi il concetto del diritto di chiedere aiuto: bisogna infatti liberarsi dell’idea che chiedere aiuto sia un’ammissione di inferiorità sociale, se non addirittura un motivo di vergogna.
Ogni persona ha diritto ad avere un aiuto e che non deve temere di chiederlo. Vogliamo raccontare le cose positive che succedono in accoglienza, la bellezza dei percorsi che portano bambini e ragazzi che hanno conosciuto la “violenza” a diventare adulti.
Ne abbiamo parlato con Alessia D’Erchia, 25 anni, educatrice e laureanda in scienze pedagogiche, che da quasi due anni è dipendente della cooperativa sociale “La Mimosa” onlus che, insieme alla cooperativa sociale “Nuova Airone”, oltre al campo dell’immigrazione, si occupa di accoglienza e protezione di minori a rischio di devianza: “Io mi occupo, nell’ambito minorile, di un servizio di assistenza domiciliare educativa denominato ‘ADE’, il cui fine è, attraverso interventi mirati sui minori dai 6 ai 18 anni, lavorare per una progettualità futura dell’utenza, contrastare il deterioramento della qualità delle relazioni familiari, sostegno scolastico e socializzazione dei minori con il gruppo dei pari”.
Quale è l’iter per ricevere tale servizio e come avvengono i contatti con le famiglie?
“I minori e le loro famiglie si avvicinano a tale servizio in seguito a una segnalazione fatta dai Servizi Sociali del Comune di Taranto, grazie al lavoro degli Assistenti Sociali e del Tribunale per i minorenni. È molto importante, a mio parere, il lavoro di squadra che avviene tra i Servizi Sociali e le cooperative perché solo guardando a una progettualità comune si raggiunge il fine ultimo del lavoro educativo. Talvolta l’approccio tra la famiglia e l’educatore di riferimento non è semplice, in quanto questa figura, viene vista come una persona estranea che vuole intromettersi nella vita familiare: va da sé che non è così e infatti, appena ciò viene riconosciuto, il rapporto educatore-famiglia cambia e si lavora in sinergia per il bene e la felicita dei minori”.
Quale è l'organizzazione del servizio?
“Gli incontri domiciliari avvengono 2-3 volte a settimana per un massimo di 2 ore a incontro. Questi vengono strutturati ad hoc rispetto alle esigenze dell’utenza, quindi si supporta il minore a livello scolastico, si organizzano passeggiate o uscite, si svolgono laboratori manuali o si gioca insieme guardando sempre alla progettualità che è alla base di ogni lavoro educativo. Durante l’anno la cooperativa organizza delle attività da svolgere tutti insieme come feste o giornate al mare e questo permette che si crei un legame sempre più forte non solo tra l’educatrice di riferimento e l’utenza, quanto tra tutti i minori che usufruiscono di tale servizio”.
Come vengono seguiti durante il percorso scolastico?
“Nello specifico, le educatrici supportano a livello scolastico i minori aiutando loro a svolgere i compiti o spiegando loro ciò che non è chiaro della lezione. Inoltre, vi è un contatto diretto e continuo con le varie scuole e gli insegnati perché tutte le istituzioni educative convergano verso lo stesso obiettivo”.
Come avete svolto il vostro lavoro durante questo coronavirus e come lo hanno vissuto i minori?
“Questa pandemia da Covid-19 è stata totalmente inaspettata per tutti e cambiare il proprio lavoro in base a ciò che ci è stato indicato nei vari DPCM inizialmente non è stato semplice. Esattamente come è avvenuto in tutti gli ambiti, anche noi educatori abbiamo dovuto modificare gli strumenti con i quali lavorare. Infatti abbiamo continuato a monitorare le famiglie attraverso chiamate e soprattutto videochiamate, durante le quali ci siamo confrontati rispetto a ciò che stava avvenendo in tutto il mondo, affinché anche i minori, dai più piccoli ai più grandi, potessero essere aggiornati oltre a metabolizzare e comprendere ciò che stava accadendo. Ci siamo dovuti approcciare alla paura di alcune famiglie non solo circa la salute ma anche e soprattutto rispetto al lavoro, molto spesso precario. In più, si è continuato con il supporto scolastico e abbiamo fatto contest fotografici, disegni, poesie e laboratori manuali, logicamente tutto a distanza. È stato molto strano non poter incontrare i minori dal vivo, condividere con loro la quotidianità, anche se tutto ciò è stata un’opportunità di crescita sia a livello personale e lavorativo per noi educatori che anche per i minori. Ciò che è emerso dai riscontri dei ragazzi è stata la mancanza della libertà di poter uscire, andare a scuola, fare ciò che ognuno desiderava o, per i più grandi, incontrare gli amici e ciò, lo abbiamo potuto evincere, soprattutto nell’attività #poivorrei, con la quale i minori dovevano esprimere tramite un disegno, un video o una frase, la prima cosa che avrebbero voluto fare appena finito il lockdown. È stato bello ascoltare i loro desideri, ciò che pensavano e i loro bisogni che non sempre riescono a far emergere”.
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