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PAOLO MARANGI: “VI RACCONTO COSA ACCADDE L’11 FEBBRAIO DI 50 ANNI FA”

11.02.2015 08:14

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Giunge il 50esimo anno dalla commemorazione delle “tre vittime sul lavoro”. Tre vite di giovani eroi, stroncate da una sorte avversa che volle donar loro miglior vita. Le pagine della storia, dalle quali dovremmo apprendere un po’ più spesso gli insegnamenti tramandati, raccontano grandi imprese, purtroppo, conclusesi, molte volte, in malo modo. Gli eroi, gli uomini e le grande azioni concepite, esclusivamente, da semplici gesti di coraggio e altruismo, mai più vero come in questo caso. La peculiare narrazione di quel drammatico giorno, ci viene raccontata da Paolo Marangi, classe 1939, il quale, tra la commozione e il dolore, decide di “rompere il muro del silenzio”, durato per troppi e lunghissimi anni. Di certo, gli occhi sono lo specchio dell’anima e, in questa determinata circostanza, il cuore si stringe nell’udir tale vicenda. Toccante, straziante e inerme dinanzi a quel ricordo ricco di dettagli che, nonostante una vita trascorsa inesorabilmente, tornano alla mente come fosse ieri. Ecco, ora ascoltare diviene complicato, ma è doveroso sapere, conoscere e informare. Il nostro cuore si adorna di lacrime, coperte da un velo nero astratto che copre le nostre sofferenze più intime e, al contempo, ci accomunano all’unisono.
Dunque, la descrizione sin dal principio di ciò che accadde.
“Era l’11 febbraio del 1965. Mattinata gelida. Eravamo intenti a scavare il pozzo in questione, nonostante le condizioni climatiche avverse, data la presenza del ghiaccio che aveva contribuito a indurire la sabbia. Durante i lavori, Carmelo Maggio si trovava nella parte inferiore, quindi giù nel pozzo, mentre io e Salvatore Lupo calavamo i tufi per passarglieli.
Giunto mezzogiorno, decidemmo di lasciare, momentaneamente, i lavori per fare la pausa pranzo. Successivamente, appena terminata la pausa, ricominciammo da dove avevamo lasciato e, nel frattempo, le condizioni climatiche tesero a mutare, passando a un tempo, sostanzialmente, sciroccato.
Intanto, Maggio, uno dei tre operai, era sceso giù e, in quel momento, iniziò a franare. Dunque, la sabbia incominciò a coprirlo sino alle gambe. Continuammo a lavorare e a calare i tufi, ma non passò molto tempo, quando, ad un certo punto, arrivò la seconda frana che lo insabbiò sino alla vita.
Imbragammo Oronzo Monopoli, presente sul posto, con due funi (una legata a me e l’altra a Lupo), il quale cercò di salvare Maggio, ai fini di aiutarlo per farlo uscire fuori, ma, purtroppo, il tentativo fu vano, perché, il movimento compiuto, contribuì a far franare la sabbia, la quale li ricoprì in maniera considerevole. Dunque, Salvatore Lupo, vedendo questo, si buttò, cercando di soccorrerli, ma, ciliegina sulla torta, questo fu il tentativo che, invece, li ricoprì. Fortunatamente, io che mi trovavo nella parte superiore, riuscii a riprendermi e ad uscire fuori. Insomma, me la cavai in questo modo.
Una volta “liberatomi” non vidi nulla dinanzi a me, vi era solo un’oscurità accecante. Allorché, decisi di tornare a Lizzano e chiamai, immediatamente, i pompieri, dato che, a quei tempi, non vi erano i cellulari che permettevano di metterti in contatto, in maniera imminente, con i soccorsi.
Avvertii, dunque, i pompieri che arrivarono prontamente sul posto, difatti, quando tornai a mare, nella zona dove accadde la tragedia, esattamente in contrada Torretta, loro erano già intenti a scavare, ai fini di recuperare le salme dei tre lavoratori, ma non ci riuscirono.
Nel frattempo, giunsero i Carabinieri che mi portarono in caserma per una deposizione. Mi tennero lì tutta la notte e, per me, fu davvero straziante raccontare quello che accadde, quel giorno, davanti ai miei occhi”.
Una minuziosa deposizione che contribuì a ricostruire e a esaminare l’accaduto.
“Attualmente, risulta difficoltoso ricordarmi tutti i particolari, ma rimembro la presenza di un giovanotto che,oggi ormai deceduto, per timore scappò via, ma era lì presente quando successe il disastro. E, ancora, una persona anziana che si sedette lungo la Litoranea e pianse considerevolmente e in maniera sofferta.
La notte iniziarono a recuperare i corpi ricoperti dalla sabbia e, io, dovetti segnalare la posizione esatta dei tre, quindi a che altezza si trovavano, poiché vi era la scala di ferro che ci permetteva di scendere nella parte inferiore del pozzo. Ricordo con precisione che l’ultima salma, quella di Carmelo Maggio, venne riesumata alle ore 14,40 del giorno seguente”.
Dopo ben 50 anni di silenzio, risulta complicato ricostruire una vicenda così delicata e sentita, non solo dallo stesso Marangi, ma, anche, per l’intera cittadinanza lizzanese che, desiderosa di commemorare questi eroi del lavoro, brama di conoscenza in merito al susseguirsi degli episodi.
Al momento della ripresa del lavoro, quindi, dopo la pausa pranzo, gli operai erano in quattro: “Esattamente, eravamo in quattro. Io rimasi sopra e Salvatore Lupo, vedendo il Monopoli che non riusciva a tirar fuori Maggio e, tra l’altro, bisognoso d’aiuto, poiché coperto per metà, andò in suo soccorso e, in quel triste momento, tutto scomparve di fronte ai miei occhi”.
Ma, precisamente, sul posto in quanti eravate? Lei, in base alla ricostruzione dei fatti, ci ha fatto capire che, in totale, eravate in sei.
“Vi era un giovanotto, Cosimo Pappadà, e un’altra persona anziana, logicamente non più in vita, Antonio Antonucci. Entrambi fuggirono via, sicuramente intimoriti alla vista di quanto avvenne”.
A questo punto, sorge spontaneo porre una domanda di natura tecnica: dato che, in quegl’anni non vi erano, sicuramente, le attrezzature odierne. Durante l’incamiciamento si utilizzavano, spesso, degli anelli di cemento, come mai in questo caso non vennero presi in considerazione?
“La nostra attrezzatura era composta da: lunghe assi di legno, puntella, tufi che venivano calati giù con una fune ciascuno”.
Sicuramente, l’11 febbraio 1965 è, per Lei, un giorno che rimarrà impresso nella storia. In che modo “rivive” quella data ogni anno?
“Da quel momento, si rafforzò la mia devozione nei confronti della Madonna di Lourdes. Io fui miracolato quel dì, lo stesso che celebrava la Santa Madre”.
Da quanto tempo lavoravate alla realizzazione del pozzo?
“All’incirca da una settimana. Difatti, la mattina, immancabilmente, si allargava sempre di più e, proprio quel fatidico giorno, inizialmente, dovemmo lavorare per ripulire il pozzo, poiché, all’interno, vi cadeva sempre la sabbia”.
La storia del pozzo è, abbastanza, travagliata e contorta. La sua costruzione venne richiesta molteplici volte, ma le risposte furono sempre negative, poiché, molto probabilmente, non vi erano le condizioni che permettevano di eseguire i lavori in totale sicurezza. Al momento della tragedia, si rammenta la profondità dello stesso, pari a 7 metri; dunque, una misura considerevole che, nel momento in cui giungeva l’imbrunire, la scarsa visibilità, nonostante l’ampia larghezza diametrale del pozzo, non concedeva la prosecuzione delle mansioni.
Un fato avverso per i tre “eroi del lavoro”. Una catastrofe che non concesse nemmeno il tempo di pensare di interrompere l’incarico da portare a termine, dato che ci si preoccupò, giustamente, del modus operandi da seguire per salvare i due già in balia della morte.
Le quattro frane che ricoprirono i corpi esanimi, quasi sicuramente, furono alimentate dalla presenza e, quindi, dalla pressione della sabbia circostante, la stessa che era stata “estrapolata” durante lo scavo. Altro elemento importante che viene riportato alla luce durante la preziosa narrazione di Paolo Marangi, riguarda la base del pozzo, già livellata sugli scogli, alla quale seguiva la collocazione dei tufi. Lo scopo del pozzo era quello di predisporre l’acqua per l’abitazione limitrofa.
È doveroso non dimenticare ciò che è accaduto e, a tal proposito, pare lecito domandare al Signor Marangi, quale sia, secondo lui, il consiglio da dare ai giovani di oggi, in merito alla sicurezza sul lavoro.
“Indubbiamente le attrezzature che vi sono oggigiorno, sono, sicuramente, all’avanguardia rispetto a quelle esistenti 50 anni fa. L’attenzione non deve mai mancare, in tutto ciò che si fa”.


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